domenica 24 agosto 2008

The Year of a Magical Thinking



A Londra piove come non faceva da 91 anni! Le passeggiate nei parchi o lungo le rive del Tamigi sono rinviate a tempi migliori.

Nei rari momenti in cui non piove si esce a cercare la luce, ma niente illusioni, ci sono 20 gradi al massimo, e alla sera, almeno per noi che non abbiamo piu’ 20 anni, (per i piu’ giovani al contrario la nightlife londinese e’ ricchissima di eventi e divertimenti di ogni sorta) delle buone anzi, ottime alternative sono la scoperta di pub, i cinema, meglio quelli d’essay (aspettando che la Mostra del Cinema di Venezia ci regali qualche gioiellino) e, over the best, il teatro.

A Londra i teatri non mancano: dai fringe a quelli piu’ celebri non c'e' che l’imbarazzo della scelta. In questi giorni, il National Theatre a Southbank ripropone: “The Year of Magical Thinking” (l'anno del pensiero magico) un monologo tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Joan Didion, scrittirice americana, rubricista, saggista, e interpretato dall'attrice inglese Vanessa Redgrave.



La scenografia curata da Bob Crowley e’ essenziale: una sedia, una sorta di spalla della Redgrave, lo scenario dominato dal bianco, dal nero e dal grigio, perche’ e’ proprio di questo che tratta il monologo: la vita, nella sua quotidianita’, nella sua rassicurante certezza che all’improvviso cessa, e tutto cambia, tutto diventa un vortice nero. Quando poi il vortice si ferma si entra in una zona grigia, per esplorare se’ stessi e quel che sta intorno, per interrogarsi e cercare delle risposte, per piangere anche, per ricordare, perche’ ad un certo momento fa bene anche ricordare, e poi non ricordare (se si e’ capaci) che non vuol dire dimenticare, perche’  questo e’ l’unico modo per continuare a vivere.

La storia in breve: il 25 dicembre del 2003 la figlia di Joan Didion, Quintana viene portata al Pronto Soccorso di un ospedale di New York per una banale influenza degenerata poi in polmonite e shock settico. La sera del 30 dicembre la Didion e il marito, lo scrittore John Gregory Dunne, rientrati a casa dall’ospedale dove e’ ricoverata la figlia chiacchierano, aspettando di mangiare. John ha un bicchiere in mano e improvvisamente si accascia: Then he wasn’t. Wasn’t talking. John stava parlando e un attimo dopo non parlava più.

 

Life changes fast

Life changes in the instant.

You sit down to dinner and life as you know it ends.

The question of self-pity


Questo e’ il nero, il bianco sono i ricordi di Joan: le estati a Malibu’, il matrimonio della figlia, il lessico familiare, una sorta di linguaggio in codice che solo loro conoscono e capiscono: “I love you more than even one more day”.

Il tema centrale e’ comprendere cio’ che non puo’ essere compreso, e’ il pensiero magico se…

Se non butto via le sue scarpe lui ritornera’; e’ il modo in cui Joan allontana la realta’ da se’, e’ il Sisifo di Camus che sfida la montagna e vince sulla morte. E’ il cerchio che separa il mondo magico di Joan in cui tutto e’ bene e il mondo che sta fuori.

Nell’agosto 2005 la Didion ha ultimato il romanzo che parla della morte di John e la figlia Quintana, improvvisamente, muore.

Joan Didion non ha cambiato il racconto per parlare della sua morte: “E’ finita,” ha detto soltanto. 

La prima cosa che mi sono detta e’ stata: ”come si fa a portare a teatro tutto questo? Un monologo che puo’ diventare melenso, noioso, pesante, perche’ e’ cosi’ il dolore degli altri. Noi non lo vogliamo conoscere, ci fa paura, fa tremare le nostre certezze, cio’ che agli altri accade a noi non puo’ succedere…

La risposta e’ venuta fin dalle prime battute da Vanessa Redgrave:

“This happened on December 30, 2003. That may seem a while ago but it won’t when it happens to you.

And it will happen to you. The details will be different, but it will happen to you.

That’s what I’m here to tell you”.

 

Per un’ora e quaranta minuti Vanessa Redgrave ha raccontato senza enfasi, con naturalezza, misurando momenti di humour a momenti di dolore, il riso e il pianto proprio come nella vita. Lei e’ stata suoerba, meravigliosa, magnetica! La ricordavo nel bellissimo film di Zimmermann, “Giulia”, lei ancora giovane ma gia’ cosi’ carismatica, l’ho rivista oggi ed e’ ancora giovane, ancora cosi’ carismatica.


Quintana, John e Joan a Malibu'


venerdì 22 agosto 2008

A proposito di alberi: A Tomb with a View

Gli alberi di Kekova
Lo storico e studioso degli alberi, l'Anglo-Irlandese Thomas Pakenham nel libro intitolato “Remarkable Trees of the World”, edito a Londra dalla Weidenfeld & Nicolson, presenta la foto di un maestoso, antichissimo ulivo abbarbicato tra le rocce della necropoli che sovrasta il villaggio turco di Kekova. Pakenham cita Eraclito e alcuni passi tratti dal poema 'Heraclitus' di William Johnson Cory (1823-1892), che vi riportiamo qui di seguito.

"A Tomb with a View"

And now that you are lying, my dear old Carian guest,
A handful of grey ashes long, long ago at rest...”


If you are looking for a good place to lay your bones -or your ashes, like Heraclitus in the poem above- may I recommend this delightful corner of south-west Turkey now called Kekova. It was formerly the Greek olive trading port of Tristomo ('Three Mouths'). The place is full of amenities – a medieval castle to defend you from pirates, an acropolis and theatre for Greek tragedies and a luxurious necropolis. The tombs have the best view of all: to the north, the mountains of Lycia, snow-capped in spring; to the south, a languid view of the Aegean through drifts of olive trees.

Pakenham continua spiegandoci come le iscrizioni greche minacciassero gli eventuali vandali dal manomettere i sarcofagi, ma che poco riuscirono come deterrente per i ladri. La parola latina, sarcofagi significa mangiatori di carne, e l'autore usa lo humour inglese per fare una battuta noir. Ma ci dice anche, piu' seriamente, che gli ulivi tutt'intorno contrastano il senso della morte in quanto rappresentano la vita, millenari come sono. Esclama Pakenham: " If only we could imitate the olive!" E poi osserva che l'Eraclito del poemetto di Cory, lui che beato viveva nella Caria, trova l'immortalita', come i versi finali rilevano con la metafora degli usignoli che eternano il suo canto. Ancora dal Poema Heraclitus di William Johnson Cory:

They told, Heraclitus, they told, me you were dead;
They brought me bitter news to hear and bitter tears to shed;
I wept, as I remembered, how often you and I had tired the sun with talking, and sent him down the sky.
And now that you are lying, my dear old Carian guest,
a handful of grey ashes, long, long ago at rest,
still are thy pleasant voices, the nightingales, awake;
for death, he taken all away, but them he cannot take.


lunedì 4 agosto 2008

Trieste downtown 3.15 in the morning

Trieste downtown 3.15 in the morning.

The unrelenting summer heat not letting us sleep soundly though our window is looking over a narrow alley that is perfectly silent. Suddenly a thunderous noise fills the street, a dog fight, the high shriek of a lady booming over the barking. She's calling to the dogs to stop it, but has some difficulty in setting order. She's furious about one in particular who looks as if, maybe sounds is a better term, it's bitten into another dog's limb. 'Ansia', Italian for anxiety, 'Narco' and 'Bastard' are the three dogs' names, the former two names very likely expressing part of the lady's problems, the latter being instead nobody's fault. 'Don't you ever dare do it again, never ever again I'm telling you.'

Elena is hissing and calling at her to refrain beating the dog. I fear she may fall over into the street by leaning with half her body out of the window sill. The lady carries on, talking to the dogs like humans, she doesn't have ears for a filthy-rich woman protruding from a two-star hotel room, mind you. The lady's raucous voice barking at her three dogs turns way down low while exiting the alley in the distance.

That is not the only fracas on that night. A tomcat and his girl-friend are staging their ferocious love encounters repeatedly for a dozen times, their screams tearing apart the night's silence. One wonders how this particular male cat has dodged the general sterilization campaign that leaves all his cronies with one ear clipped. We suppose he must only prowl the city streets by night and spend the days high in the trees.

La civetta di Patara

Una sera, a Patara, seduti sotto il pergolato della pensione da Jimmy, stavamo gustando il nostro pesce ai ferri in compagnia di due giovani turisti italiani che raccontavano del loro viaggio in Turchia. Avevano percorso migliaia di chilometri: dalle coste del Mar Nero erano andati in Cappadocia e poi ancora più lontano fino ai confini orientali della Turchia. Volevano esplorare la terra raccontata nei libri di Pamuk. Noi eravamo attenti perché quello era un viaggio che prima o poi avremmo voluto fare anche noi. Loro a Patara ci erano finiti quasi per caso, provenendo da Kaş dove avevano preso alloggio, ma poi avevano scoperto la spiaggia magnifica, ben 14 km di sabbia e dune, il sito archeologico ricchissimo e oggi ancor più ricco per il ritrovamento dell'antico faro, pare uno dei primi della storia antica, e tutto questo li aveva fatto decidere di trasferirsi lì per alcuni giorni, prima del rientro in Italia, e lasciare l'affollato e turistico, seppur delizioso, villaggio di Kaş.

Il nostro lieto conversare fu interrotto da un rumore un po' insolito che in un primo momento non riuscimmo a decifrare, e guardando verso l'alto, sulla strada, illuminata dalla luna, che quella sera era piena, ci accorgemmo di una civetta che nervosamente volava quasi radente il terreno. Strano, pensammo, gli animali conoscono bene l'economia, non fanno mai nulla senza un motivo preciso. Forse era spaventata da qualcosa, o disorientata. Il suo volo, in quell'occasione non silenzioso com'è invece tipico degli uccelli notturni, tracciava una traiettoria, sempre la stessa, che andava giù sulla strada e poi in alto sul filo della luce poco lontano. Guardammo meglio e ci accorgemmo che accanto ad un muro di pietra, proprio sul bordo della strada, l'unica che dal paese conduce alla spiaggia, se ne stava spaventato un piccolo di civetta, una pallina di piume tutta becco e zampe, tremante per lo spavento. L'istinto fu quello di raccoglierla ma Jimmy ci fermò spiegandoci che se l'avessimo presa in mano la madre l'avrebbe rifiutata per sempre.

Cosa si poteva fare? Comprendemmo ben presto che la madre con il suo volo che a noi pareva senza senso, stava dando indicazioni precise al suo piccolo: “Stai riparato e cerca di salire il muricciolo, lì sopra c'è un giardino e se starai nascosto sotto una pianta ti potrò portare da mangiare e sarai salvo”, o almeno questo fu quello che immaginammo. La piccola civetta pareva seguire le istruzioni della madre e con grande fatica cercava di risalire il muro. Ci mettemmo allora sul bordo della strada avvisando i rari automobilisti di rallentare e facilitare così l'impresa del piccolo.

Dopo diversi tentativi andati a vuoto, finalmente con un salto la piccola civetta riuscì a guadagnare il giardino soprastante la strada e noi tutti tirammo un respito di sollievo. E' salva! Anche la madre sembrava aver trovato finalmente un po' di pace, i suoi grandi occhi, illuminati dalla luce della luna, ci fissavano ormai senza paura.

Ritornammo ai nostri tavoli, le conversazioni ripresero allegre, eravamo tutti soddisfatti di aver contribuito, almeno per una piccola parte, alla salvezzza del cucciolo di civetta.

Dopo nemmeno 10 minuti dalla strada sentimmo un trambusto, dall'oscurità uscì fuori un uomo che gridava e dall'alto del muro vedemmo cadere un serpente, l'uomo iniziò a batterlo con un bastone fino ad ucciderlo, lo prese e lo gettò via. Poco più in là, non ce ne accorgemmo subito, vedemmo qualcosa che nell'oscurità era difficile distinguere, ci avvicinammo e quando fummo a poca distanza ci rendemmo conto che si trattava della piccola civetta, ormai morta. Rimanemmo in silenzio: il giardino che doveva essere il suo rifugio si era rivelato una trappola, la piccola era diventata facile preda di chi forse, chissà da quanto tempo, la osservava aspettando il momento giusto per catturarla e ucciderla.

La madre se ne stava immobile sul filo della luce, è difficile dire se le civette hanno un'espressione, ma a noi, quello sguardo stralunato ci parve pieno di dolore.

Per tutta la notte la civetta è rimasta su quel filo a guardare il piccolo e per tutta la notte, né io né George siamo riusciti a dormire, dalla finestra della nostra camera sentivamo il suo canto disperato.