domenica 23 novembre 2008

STRAIGHT AHEAD TO AUSTRALIA!

Ed e' arrivata l'ora di partire!

A fine mese lasceremo alle spalle la neve di Londra e l'impaziente inverno che gia' scalpita in Italia.

Tutto e' pronto. Ormai da mesi stiamo studiando gli itinerari piu' belli e quelli meno conosciuti.

A chi, almeno idealmente vorra' seguirci, lasciamo le nostre tracce:

Cairns - Brisbane

Brisbane - Sidney

Sidney - Hobart (Tasmania)

Hobart - Melbourne

Melbourne - Adelaide e Kangaroo Island


Adelaide - Londra

Il Natale e il Capodanno lo trascorreremo in Tasmania, in compagnia di Ariella, Byron, John, Giovanni, Roberto, Giulia, le Carbonare, Nick il Barone Rampante (di cui vi daremo gli aggiornamenti sullo stato dell'arte della sua "casa-faro"), e tutti gli amici che abbiamo incontrato l'anno scorso e che ci aspettano con grande emozione (naturalmente reciproca).

Terremo un diario, questa volta ce lo siamo imposto! Non vogliamo dimenticare nulla: luoghi, colori, profumi, emozioni, suoni. Tenteremo di pubblicarlo (in tempo reale) nel blog cosi' da mantenere i contatti con tutti gli amici di Wandrian e di Neverneverland.

Mandateci commenti, e-mail, domande, consigli.


A questo punto carissimi amici vi abbracciamo, vi auguriamo un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo (tanto per essere degli originali), e a presto su questo blog!





domenica 24 agosto 2008

The Year of a Magical Thinking



A Londra piove come non faceva da 91 anni! Le passeggiate nei parchi o lungo le rive del Tamigi sono rinviate a tempi migliori.

Nei rari momenti in cui non piove si esce a cercare la luce, ma niente illusioni, ci sono 20 gradi al massimo, e alla sera, almeno per noi che non abbiamo piu’ 20 anni, (per i piu’ giovani al contrario la nightlife londinese e’ ricchissima di eventi e divertimenti di ogni sorta) delle buone anzi, ottime alternative sono la scoperta di pub, i cinema, meglio quelli d’essay (aspettando che la Mostra del Cinema di Venezia ci regali qualche gioiellino) e, over the best, il teatro.

A Londra i teatri non mancano: dai fringe a quelli piu’ celebri non c'e' che l’imbarazzo della scelta. In questi giorni, il National Theatre a Southbank ripropone: “The Year of Magical Thinking” (l'anno del pensiero magico) un monologo tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Joan Didion, scrittirice americana, rubricista, saggista, e interpretato dall'attrice inglese Vanessa Redgrave.



La scenografia curata da Bob Crowley e’ essenziale: una sedia, una sorta di spalla della Redgrave, lo scenario dominato dal bianco, dal nero e dal grigio, perche’ e’ proprio di questo che tratta il monologo: la vita, nella sua quotidianita’, nella sua rassicurante certezza che all’improvviso cessa, e tutto cambia, tutto diventa un vortice nero. Quando poi il vortice si ferma si entra in una zona grigia, per esplorare se’ stessi e quel che sta intorno, per interrogarsi e cercare delle risposte, per piangere anche, per ricordare, perche’ ad un certo momento fa bene anche ricordare, e poi non ricordare (se si e’ capaci) che non vuol dire dimenticare, perche’  questo e’ l’unico modo per continuare a vivere.

La storia in breve: il 25 dicembre del 2003 la figlia di Joan Didion, Quintana viene portata al Pronto Soccorso di un ospedale di New York per una banale influenza degenerata poi in polmonite e shock settico. La sera del 30 dicembre la Didion e il marito, lo scrittore John Gregory Dunne, rientrati a casa dall’ospedale dove e’ ricoverata la figlia chiacchierano, aspettando di mangiare. John ha un bicchiere in mano e improvvisamente si accascia: Then he wasn’t. Wasn’t talking. John stava parlando e un attimo dopo non parlava più.

 

Life changes fast

Life changes in the instant.

You sit down to dinner and life as you know it ends.

The question of self-pity


Questo e’ il nero, il bianco sono i ricordi di Joan: le estati a Malibu’, il matrimonio della figlia, il lessico familiare, una sorta di linguaggio in codice che solo loro conoscono e capiscono: “I love you more than even one more day”.

Il tema centrale e’ comprendere cio’ che non puo’ essere compreso, e’ il pensiero magico se…

Se non butto via le sue scarpe lui ritornera’; e’ il modo in cui Joan allontana la realta’ da se’, e’ il Sisifo di Camus che sfida la montagna e vince sulla morte. E’ il cerchio che separa il mondo magico di Joan in cui tutto e’ bene e il mondo che sta fuori.

Nell’agosto 2005 la Didion ha ultimato il romanzo che parla della morte di John e la figlia Quintana, improvvisamente, muore.

Joan Didion non ha cambiato il racconto per parlare della sua morte: “E’ finita,” ha detto soltanto. 

La prima cosa che mi sono detta e’ stata: ”come si fa a portare a teatro tutto questo? Un monologo che puo’ diventare melenso, noioso, pesante, perche’ e’ cosi’ il dolore degli altri. Noi non lo vogliamo conoscere, ci fa paura, fa tremare le nostre certezze, cio’ che agli altri accade a noi non puo’ succedere…

La risposta e’ venuta fin dalle prime battute da Vanessa Redgrave:

“This happened on December 30, 2003. That may seem a while ago but it won’t when it happens to you.

And it will happen to you. The details will be different, but it will happen to you.

That’s what I’m here to tell you”.

 

Per un’ora e quaranta minuti Vanessa Redgrave ha raccontato senza enfasi, con naturalezza, misurando momenti di humour a momenti di dolore, il riso e il pianto proprio come nella vita. Lei e’ stata suoerba, meravigliosa, magnetica! La ricordavo nel bellissimo film di Zimmermann, “Giulia”, lei ancora giovane ma gia’ cosi’ carismatica, l’ho rivista oggi ed e’ ancora giovane, ancora cosi’ carismatica.


Quintana, John e Joan a Malibu'


venerdì 22 agosto 2008

A proposito di alberi: A Tomb with a View

Gli alberi di Kekova
Lo storico e studioso degli alberi, l'Anglo-Irlandese Thomas Pakenham nel libro intitolato “Remarkable Trees of the World”, edito a Londra dalla Weidenfeld & Nicolson, presenta la foto di un maestoso, antichissimo ulivo abbarbicato tra le rocce della necropoli che sovrasta il villaggio turco di Kekova. Pakenham cita Eraclito e alcuni passi tratti dal poema 'Heraclitus' di William Johnson Cory (1823-1892), che vi riportiamo qui di seguito.

"A Tomb with a View"

And now that you are lying, my dear old Carian guest,
A handful of grey ashes long, long ago at rest...”


If you are looking for a good place to lay your bones -or your ashes, like Heraclitus in the poem above- may I recommend this delightful corner of south-west Turkey now called Kekova. It was formerly the Greek olive trading port of Tristomo ('Three Mouths'). The place is full of amenities – a medieval castle to defend you from pirates, an acropolis and theatre for Greek tragedies and a luxurious necropolis. The tombs have the best view of all: to the north, the mountains of Lycia, snow-capped in spring; to the south, a languid view of the Aegean through drifts of olive trees.

Pakenham continua spiegandoci come le iscrizioni greche minacciassero gli eventuali vandali dal manomettere i sarcofagi, ma che poco riuscirono come deterrente per i ladri. La parola latina, sarcofagi significa mangiatori di carne, e l'autore usa lo humour inglese per fare una battuta noir. Ma ci dice anche, piu' seriamente, che gli ulivi tutt'intorno contrastano il senso della morte in quanto rappresentano la vita, millenari come sono. Esclama Pakenham: " If only we could imitate the olive!" E poi osserva che l'Eraclito del poemetto di Cory, lui che beato viveva nella Caria, trova l'immortalita', come i versi finali rilevano con la metafora degli usignoli che eternano il suo canto. Ancora dal Poema Heraclitus di William Johnson Cory:

They told, Heraclitus, they told, me you were dead;
They brought me bitter news to hear and bitter tears to shed;
I wept, as I remembered, how often you and I had tired the sun with talking, and sent him down the sky.
And now that you are lying, my dear old Carian guest,
a handful of grey ashes, long, long ago at rest,
still are thy pleasant voices, the nightingales, awake;
for death, he taken all away, but them he cannot take.


lunedì 4 agosto 2008

Trieste downtown 3.15 in the morning

Trieste downtown 3.15 in the morning.

The unrelenting summer heat not letting us sleep soundly though our window is looking over a narrow alley that is perfectly silent. Suddenly a thunderous noise fills the street, a dog fight, the high shriek of a lady booming over the barking. She's calling to the dogs to stop it, but has some difficulty in setting order. She's furious about one in particular who looks as if, maybe sounds is a better term, it's bitten into another dog's limb. 'Ansia', Italian for anxiety, 'Narco' and 'Bastard' are the three dogs' names, the former two names very likely expressing part of the lady's problems, the latter being instead nobody's fault. 'Don't you ever dare do it again, never ever again I'm telling you.'

Elena is hissing and calling at her to refrain beating the dog. I fear she may fall over into the street by leaning with half her body out of the window sill. The lady carries on, talking to the dogs like humans, she doesn't have ears for a filthy-rich woman protruding from a two-star hotel room, mind you. The lady's raucous voice barking at her three dogs turns way down low while exiting the alley in the distance.

That is not the only fracas on that night. A tomcat and his girl-friend are staging their ferocious love encounters repeatedly for a dozen times, their screams tearing apart the night's silence. One wonders how this particular male cat has dodged the general sterilization campaign that leaves all his cronies with one ear clipped. We suppose he must only prowl the city streets by night and spend the days high in the trees.

La civetta di Patara

Una sera, a Patara, seduti sotto il pergolato della pensione da Jimmy, stavamo gustando il nostro pesce ai ferri in compagnia di due giovani turisti italiani che raccontavano del loro viaggio in Turchia. Avevano percorso migliaia di chilometri: dalle coste del Mar Nero erano andati in Cappadocia e poi ancora più lontano fino ai confini orientali della Turchia. Volevano esplorare la terra raccontata nei libri di Pamuk. Noi eravamo attenti perché quello era un viaggio che prima o poi avremmo voluto fare anche noi. Loro a Patara ci erano finiti quasi per caso, provenendo da Kaş dove avevano preso alloggio, ma poi avevano scoperto la spiaggia magnifica, ben 14 km di sabbia e dune, il sito archeologico ricchissimo e oggi ancor più ricco per il ritrovamento dell'antico faro, pare uno dei primi della storia antica, e tutto questo li aveva fatto decidere di trasferirsi lì per alcuni giorni, prima del rientro in Italia, e lasciare l'affollato e turistico, seppur delizioso, villaggio di Kaş.

Il nostro lieto conversare fu interrotto da un rumore un po' insolito che in un primo momento non riuscimmo a decifrare, e guardando verso l'alto, sulla strada, illuminata dalla luna, che quella sera era piena, ci accorgemmo di una civetta che nervosamente volava quasi radente il terreno. Strano, pensammo, gli animali conoscono bene l'economia, non fanno mai nulla senza un motivo preciso. Forse era spaventata da qualcosa, o disorientata. Il suo volo, in quell'occasione non silenzioso com'è invece tipico degli uccelli notturni, tracciava una traiettoria, sempre la stessa, che andava giù sulla strada e poi in alto sul filo della luce poco lontano. Guardammo meglio e ci accorgemmo che accanto ad un muro di pietra, proprio sul bordo della strada, l'unica che dal paese conduce alla spiaggia, se ne stava spaventato un piccolo di civetta, una pallina di piume tutta becco e zampe, tremante per lo spavento. L'istinto fu quello di raccoglierla ma Jimmy ci fermò spiegandoci che se l'avessimo presa in mano la madre l'avrebbe rifiutata per sempre.

Cosa si poteva fare? Comprendemmo ben presto che la madre con il suo volo che a noi pareva senza senso, stava dando indicazioni precise al suo piccolo: “Stai riparato e cerca di salire il muricciolo, lì sopra c'è un giardino e se starai nascosto sotto una pianta ti potrò portare da mangiare e sarai salvo”, o almeno questo fu quello che immaginammo. La piccola civetta pareva seguire le istruzioni della madre e con grande fatica cercava di risalire il muro. Ci mettemmo allora sul bordo della strada avvisando i rari automobilisti di rallentare e facilitare così l'impresa del piccolo.

Dopo diversi tentativi andati a vuoto, finalmente con un salto la piccola civetta riuscì a guadagnare il giardino soprastante la strada e noi tutti tirammo un respito di sollievo. E' salva! Anche la madre sembrava aver trovato finalmente un po' di pace, i suoi grandi occhi, illuminati dalla luce della luna, ci fissavano ormai senza paura.

Ritornammo ai nostri tavoli, le conversazioni ripresero allegre, eravamo tutti soddisfatti di aver contribuito, almeno per una piccola parte, alla salvezzza del cucciolo di civetta.

Dopo nemmeno 10 minuti dalla strada sentimmo un trambusto, dall'oscurità uscì fuori un uomo che gridava e dall'alto del muro vedemmo cadere un serpente, l'uomo iniziò a batterlo con un bastone fino ad ucciderlo, lo prese e lo gettò via. Poco più in là, non ce ne accorgemmo subito, vedemmo qualcosa che nell'oscurità era difficile distinguere, ci avvicinammo e quando fummo a poca distanza ci rendemmo conto che si trattava della piccola civetta, ormai morta. Rimanemmo in silenzio: il giardino che doveva essere il suo rifugio si era rivelato una trappola, la piccola era diventata facile preda di chi forse, chissà da quanto tempo, la osservava aspettando il momento giusto per catturarla e ucciderla.

La madre se ne stava immobile sul filo della luce, è difficile dire se le civette hanno un'espressione, ma a noi, quello sguardo stralunato ci parve pieno di dolore.

Per tutta la notte la civetta è rimasta su quel filo a guardare il piccolo e per tutta la notte, né io né George siamo riusciti a dormire, dalla finestra della nostra camera sentivamo il suo canto disperato.

martedì 15 luglio 2008

In viaggio con il parapendio in Turchia

L'IMPOSSIBILE VOLO




Volare, e chi non ci ha mai pensato almeno una volta? Riuscire a volare come gli uccelli nel silenzio, nel vento. Guardare il mondo dall'alto.

Certamente anche il volo con l'aereo è un volo, ma si è chiusi dentro ad una scatola rumorosa, legati come dei salami e impossibilitati, o quasi, a guardare giù.


Tutti, o quasi tutti, hanno desiderato essere rondine, aquila, gabbiano! Uno dei libri della mia giovinezza al quale sono legata da molti ricordi è "Il Gabbbiano" di Jonathan Livingstone. L'idea della libertà è legata sempre e comunque al sogno di un volo.


A volare come gli uccelli, nel corso della storia dell'umanità, ci hanno provato in molti: dal padre di tutti i voli, Icaro, figlio di Dedalo e di una schiava, Neucrate; al grande Leonardo che alla libertà ha legato tanti suoi progetti.



Il mondo moderno ha raffinato le tecniche, aliante, parapendio, fino alle più sofisticate ali costruite con materiali ultraleggeri che imitano, o quasi, il volo di un uccello.

Il post parla del volo che George ed io abbiamo compiuto con il parapendio a Őludeniz, località di mare immortalata in tutti i manifesti che reclamizzano la Turchia per le sue magnifiche acque trasparenti.

E' tutto vero, il mare è favoloso, costellato da isole e isolotti e chiusa tutt'intorno da montagne che arrivano fino ai 2000 metri. Un vero paradiso in terra, come si usa dire, o così almeno pensavamo mentre da Dalyan studiavamo un itinerario interessante che ci portasse verso la nostra prossima meta: Patara.

Scartato il piccolo villaggio di pescatori di Gőçek, oggi un lussuoso scalo per imbarcazioni da diporto e caicchi a cinque stelle, splendido per il panorama che offre, ma inavvicinabile in quanto a ristoranti, alberghi e pensioni, abbiamo optato per Őludeniz, soprattutto attirati dalle entusiastiche descrizioni della nostra guida.

Pochi chilometri prima di Őludeniz la vista di baie selvagge e deserte da un lato, ci ha fatto rimpiangere di non avere nel bagagliaio dell'auto la tenda, dall'altro, ha aumetato l'entusiasmo e le aspettative che anche Őludeniz ci avrebbe riservato altrettanta bellezza, e già pregustavamo un tuffo nell'acqua turchese e una grigliata in riva al mare. Al nostro arrivo però ci siamo resi immediatamente conto che le cose non stavano esattamente così.

"The crowds the crowds!", "le folle, le folle!" .

L'associazione dello sguardo stralunato accompagnato da un grido allarmato dell'amica neozelandese in visita a Venezia, con quello che si presentava davanti ai nostri occhi fu spontanea. Il lungomare brulicava di gente, una lunga catena di ristoranti, bar, pizzerie, negozi, musica a volume altissimo, gli ombrelloni uno di fianco all'altro non lasciavano dubbi.

Il nostro primo pensiero è stato: scappiamo! In assenza di un piano B, vista l'ora, (le 2 del pomeriggio), la fame e la stanchezza, abbiamo optato per un boccone veloce, una birra e poi via di corsa alla ricerca di un altro posto. Una buona regola (che io e George ci ripetiamo ad ogni viaggio con evidenti scarsi risultati) è quella di leggere dall'inizio alla fine le descrizioni delle località riportate nelle guide turistiche, infatti la nostra poche righe dopo la descrizione del paradiso in terra continuava così:

"... il tutto sarebbe un vero paradiso se non fosse così affollato, in estate, soprattutto di domenica, conviene passare oltre... gli amanti dei campeggi superaffollati e delle discoteche rumorose troveranno pane per i loro denti; tutti gli altri faranno meglio a partire alla scoperta dei dintorni"


Questo è l'antefatto.
Dopo il pranzo, mentre ci stavamo avviando all'auto decisi ad andarcene, uno dei tanti imbonitori che picchettano la strada del lungomare ci propone un giro con il paragliding (il parapendio).

"Non sarebbe male", penso tra me e me, "anzi non sarebbe niente male come regalo per i miei 45 anni!". George, quasi mi avesse letto nel pensiero (e chissà forse è proprio così) dice a mezza voce: "ho sempre desiderato volare!"

"A chi lo dici!" Rispondo prontamente, "almeno un paio di volte all'anno sogno di volare e la sensazione è talmente profonda e bella che molte ore dopo il risveglio mi rimane un senso di leggerezza e di libertà".

Non la faccio lunga dopo mezzo secondo di esitazione ci siamo iscritti al volo delle 18, l'ora migliore perché si gode della luce del tramonto.

Grazie all'intraprendenza dell'imbonitore riusciamo anche a trovare un bungalow "cheap and quiet" immerso in una pineta affacciata sulla laguna, lasciamo giù i nostri bagagli e ci avviamo all'appuntamento con gli istruttori di volo

"Flight with the Gods! Paragliding? You can!"

che ci spiegano per filo e per segno il programma: raggiungeremo con un pick-up la cima di una montagna a 2000 metri, il volo durerà 40 minuti, ognuno di noi avrà un istruttore, fino al momento del lancio si potrà cambiare idea, è tutto sicuro, le attrezzature sono nuove e di alta qualità, gli istruttori preparati etc...

George ed io non li ascoltavamo più, nella nostra testa solo la corsa verso il vuoto che finalmente avrebbe dato corpo ai nostri sogni.



Gli aspiranti al volo erano: una coppia di inglesi di Cambridge, una coppia di Amsterdam, lui Australiano di Sidney, lei finlandese, una ragazza turca, e noi due. Totale: 7 persone. Con noi sono saliti i 7 istruttori, e fa 14, l'autista della camionetta, e siamo a 15, più 4 persone raccolte, non si sa bene a che titolo, lungo la strada e fanno 19, più i parapendii e materiale vario. Il pick-up non ne poteva tenere più di 10!

L'inglese, Brian, che il volo l'aveva già fatto l'anno prima, ci dice che il vero brivido è il viaggio fino in cima alla montagna, e noi ridiamo (incoscienti!) pensando che si tratti del solito sadico umorismo inglese.

Lasciato alle spalle il villaggio di Őludeniz, iniziamo a salire percorrendo una strada sterrata tutta curve e buche. Immersi nella polvere alzata dal pick-up e da quello che esce dal suo tubo di scappamento dopo circa 1 ora arriviamo alla meta visibilmente scossi e a corto di argomenti e battute, che a dire il vero si erano esauriti dopo i primi 20 minuti di viaggio.

Tra me e me penso che la paura di volare è minore del coraggio che dovrei trovare per affrontare nuovamente il viaggio con il pick-up, perciò mi lancerò con il parapendio, costi quel che costi.

Intuisco che il mio pensiero è largamente condiviso dai miei compagni di avventura.

Barcollanti e impolverati, ci guardiamo intorno e vediamo che un altro gruppo è pronto al lancio, e in mezzo a quel nulla ventoso scorgo una piccola baracca con una porta azzurra e una scritta WC. Mi viene da ridere, non sono l'unica ad accorgermene e presto si forma un piccola, silenziosa, ordinata coda.

Dopo pochi minuti gli istruttori ci chiamano per assegnarci ad ognuno di loro. A George gli tocca Psycho a me Alì Babà: bella coppia!

Iniziamo il rito della vestizione: tuta (facoltativa), imbrago, casco e mentre ci stiamo preparando gli istruttori spiegano quello che dovremo fare: al loro segnale dovremmo correre verso il vuoto e quando loro ce lo diranno ci siederemo; durante il volo staremo seduti davanti e loro dietro guideranno il parapendio. All'atterraggio dovremo metterci in piedi pochi secondi prima di toccare terra. Pochi ordini che vanno seguiti con la massima attenzione.

L'adrenalina in corpo mi mette in uno stato che oscilla tra l'euforia e lo stordimento, Alì Babà mi parla e mi guarda preoccupato: It's ok? Yes, yes I'm ready!

Pochi metri davanti a me il precipizio, sento il vento, dietro a noi la tela del parapendio che si gonfia leggermente, nervosa come il motore di un'auto da corsa. Mi volto, George aspetta il suo turno.

Ad un certo punto Alì, mi dice: "Go!", sembra un grido di guerra, io non ho nemmeno il tempo di chiedermi che cosa sto facendo e dopo pochi passi sono già nel vento, sotto di me il mare, gli isolotti, il sole che sta scendendo, la curvatura della terra, tutto sembra così immensamente grande e allo stesso tempo così immensamente piccolo, non sento nulla, mi sembra che il mio stesso corpo sia diventato parte di questo tutto. Sento solo il vento, Alì mi sorride, parla ma io non lo ascolto più, sono così felice che ho la sensazione che tutto questo sarà per sempre.

Mi volto e vedo George anche lui è già aria, vento, cielo, mare...

Ad un certo punto Alì mi chiede se sono pronta per l'estremo, io gli rispondi di sì anche se non mi è chiaro che cosa intende dire: dopo un secondo capisco, il parapendio inizia a volteggiare, lo stomaco mi va dentro alle orecchie, poi si avvicina ad un altro parapendio e iniziano a scherzare, poi di nuovo giù, l'adrenalina mi esce da tutti i pori della pelle, mi sembra di essere come Willy il Coyote. Guardo Alì e gli dico: voglio "rimanere quassù", lui ride e sotto di me la terra si avvicina sempre di più, il piccolo diventa via via più grande: alberi, case,uomini, barche, ombrelloni. "E' già finita", mi dico, ma io mi sento ancora grande come Gulliver, dopo poco sento la terra sotto ai miei piedi. E' finita mi dico, guardo in alto scorgo il parapendio di George, ancora in alto e lo invidio lui è ancora lassù nel vento e nel silenzio.

lunedì 7 luglio 2008

GEORGE SAYS

George says, 'The day we went to Bruny Island was perfect, in mid spring, mostly sunny and with a light breeze. The people queuing in front of the ferry wharf all Australian visitors us excepted, relaxed as only Australians can be on a holiday, never too loquacious nor anxious about children straying a few meters from Mum. As soon as we were on Bruny soil, we took a road heading North and lost sight of the other cars. Driving through a wood a wallaby crossed the road with good timing, taking long aerial steps with its beautiful face turned toward us. No need to press the brake, we were already keeping to a slow pace.

We parked the car near the sea to walk on lonely beaches each one of us taking to different directions looking for shells or fallen trees, but in the end one special place was on top of our goals, and that was the narrow strip of land joining the Northern and the Southern parts of the Island, where two different seas were visible from a small elevation you could walk up to on very comfortable wooden steps. In a place like this elsewhere, in populated countries, there would be numberless cars and coaches parked at the base, but here instead we only met one couple, and a single man sporting an Australian leather hat, with whom we exchanged a few words.

There was a group of teenagers led by a man to the lookout, but I barely noticed them at the time. Looking down to the Western part of the beach we saw among others the prints of little penguins which must have used the beach shrub vegetation as their roosting place at night. Somebody told us that the levels of the two different seas, the Pacific and the Tasmanian, are not at the same level, and thus a rise of the higher water would enact an ecological catastrophe.

Descending the steps we paused sadly in front of the face sculpted in bronze of the last Aboriginal woman, died in 1876 after all her relatives had been killed by the Western 'civilized' intruders.

We drove on moving further South, at one point leaving the main road into dirt roads that passed desolated farms, looking for a fake lighthouse that a Tasmanian friend had built with his own hand as a weekend retreat. We tried different country roads, with the car jumping on the disconnected ground, but it seemed all in vain, the improbable lighthouse not to be seen anywhere. But then, while climbing a slope, we had a glimpse of a small wooden tower on top of the hill. Nick the psychologist recognized the friend who was in our car and introduced himself. He said that the young guests were participant in an anti-establishment symposium. When tea was served, the young took to themselves and let us elders to do the conversation. Nick wanted to lead the way to his lighthouse. First a ground floor hall where I immediately noticed a rough shower. I don't remember if it was Nick himself or the lady who explained that Nick had a female weekend visitor who had complained of the lack of a shower, so he had to comply. But of course, the bedrooms were on the upper levels, and a journey downstairs might have been uncomfortable on a cold day (Ah, gossip!). One of the rooms that occupied the entire area of every level in the tower was filled with a big water tank. The impression of the interior was to me absolutely spartan. Not my cup of tea, as the English say.

I was instead interested in the man's motivations first, and in the process of building the wooden lighthouse single-handedly. If you like challenges in life, you are prone to be curious about these things. Nick had lived a short period of months in contact with the sea, surrounded by the sea, and almost no human around. That would have been a time of reflection for everyone in the situation, and he felt that he had had the experience of his life. When this happens to you, some sort of re-enacting is inevitable, and Nick found his own way of re-enacting by building a lighthouse of his own. On top the unfinished tower I could glimpse the sea in the distance. Not the same from an actual lighthouse. Nick would read my mind. He sensed my objection, and he said, 'The forest around here stands in lieu of the sea.'

Later, leaving the tower for the piazza he had cleared all round the building, Nick answered my questions to how he had proceeded. He showed me the bases of the trunks that act as pillars. He explained how he had excavated holes in the ground and then covered them in heavy bitumen, laid down the trunks with only a few inches of their bottom ends verging on the greased hole. A rope was attached to the top end on one side, while on the other it was tied to the rear of a jeep that provided the pull. He said, the Roman legionnaires of old used several men to do the job. The bottom of the tree trunk would slide into the hole, be steadied there and then go up vertically. Ingenuous indeed. Nick went on explaining similar feats. Three years work during all weekends and festivities. A hard if remunerative job.

Elena and I only interrupted Nick's narration to relieve ourselves of the tea's water in the forest. It was also an excuse to visit the place around Nick's sophisticated summer house. We took a path in the wood, and soon found a friendly tree for each of us, first Elena and a few meter further for myself. I was ready to urinate when I nearly jumped back. I had seen a snake near the tree. Elena came over and saw that the said snake had paws. I knew instantly that I had made myself the object of ridicule for the rest of my days. We went back to Nick's house and told our Aussie friends our meeting with a snake, or serpent. The lady asked Nick, were there snakes in this season? Nick shrugged his shoulders meaning there were plenty. With cameras in their hand two of our friends wanted to have a look at the creature. It was still there, a big lizard bearing the name of Blue-Tongue, toxic but never lethal.

I went inside the wooden-framed caravan all painted over with desert flowers to have some more tea.’

sabato 5 luglio 2008

GAY PRIDE - LONDON 5 LUGLIO 2008



Partecipare al gay pride di Londra e' un'esperienza indimenticabile. Noi ci siamo stati oggi: abbiamo seguito il corteo dai primi momenti in Baker Street e poi lungo Oxford Street e giu' per Regent Street fino all'arrivo a Trafalgar Square. 
La piazza, come in tante altre occasioni e' stato il teatro di una grande festa. A dispetto delle previsioni che davano pioggia, la giornata e' stata splendida. C'erano tutti: associazioni di gay, lesbiche, trans, rappresentanti della Metropolitan Police, del Servizio Sanitario Nazionale, della British Airways, dei bancari, della Ford, del mondo musulmano, dei trekkers della domenica e tanti altri ancora... tra i piu' disparati che nemmeno con la fantasia si puo' immaginare. 

Ancora una volta, Londra da' il meglio di se' stessa, replica in ogni momento la prima sensazione che si ha quando si arriva: liberta'! A Londra ci si sente davvero liberi di esprimere se stessi come si vuole. Di uscire di casa vestiti come capita, di sedersi per terra a leggere un libro, di distendersi in mezzo ad un prato, di cantare in mezzo alla strada...




Il tema di quest'anno era "Fairytales, Myths and Legends" (racconri di fate, miti e leggende) e lo spettacolo e' stato magico, con le Drags Queens e Prince Charmings che hanno fatto la loro parte. 



Londra e' grande e oggi lo si e' visto, il sindaco (Mayor) di Londra era presente anche lui, da semplice cittadino, a piedi, senza scorta e pompa magna! Basta vedere la foto!











Ecco perche' amiamo Londra, per questo stile di vita informale e intriso di tolleranza e bonarieta'.

Peccato che quest'anno sia tormentata da mortali accoltellamenti tra bande rivali di adolescenti, sono gia'  20 i morti e anche oggi i giornali invocano una maggiore prevenzione da parte della Polizia per cercare di fermare questa carneficina e meno concentrazione sul terrorismo che, francamente, ma questa e' una nostra opinione non pare rappresenti un reale pericolo.

Comunque sia, oggi Londra era solo una grande festa che continuera' per tutta la notte a Soho, nell'East End,  in ogni strada e piazza indifferente a chi oggi ha cercato di rovinargliela, come lo sparuto gruppo di fanatici religiosi, predicatori intolleranti che protestavano contro il Gay Pride minacciando l'ira del padreterno sulla testa dei 'peccatori'. Pazienza Londra. Come recitava uno striscione: No Fear in Love.






  

PINARA: UN SITO CHE TOGLIE IL FIATO





Pinara era una delle 6 piu’ importanti citta’ della Federazione Licia, oggi e’ quasi completamente dimenticata e fuori dalle rotte turistiche. Peccato. Cio’ che resta, a parte il teatro e la necropoli non e’ molto ma si e’ completamente ripagati dalla vista mozzafiato della catena montuosa dei Tauri.

Noi l’abbiamo scoperta grazie ad una caldissima giornata che ci ha fatto scappare dalla spiaggia di Patara per cercare sollievo in mezzo alle montagne. Abbiamo aperto la carta geografica e dopo una rapida scorsa alle altimetrie il dito ha puntato senza esitazione su Pinara.

Imboccata la strada principale, un cartello marrone ci ha indicato una strada un po’ piu’ stretta, in mezzo alla campagna. Ecco cosa sorprende della Turchia, basta uscire dalle strade principali per trovarsi nella natura, senza case, strade, macchine, rumori. La strada un po’ alla volta si e’ fatta piu’ stretta e poi sterrata e ha cominciato ad inerpicarsi. Niente paura ci siamo detti, non bisogna scoraggiarsi, semmai usare molta prudenza perche’ le sterratedi montagna non hanno paracarri e la vista degli strapiombi puo’ far tremare le vene dei polsi.

Quando ormai pensavamo (accade sempre cosi’) di aver sbagliato strada e di essere finiti chissa’ dove, un altro cartello ci segnalava che eravamo arrivati!. Distolto lo sguardo, ormai allucinato, dalla strada, ci siamo resi conto che davanti a noi si apriva uno spettacolo meraviglioso.

All’ingresso del sito solo la piccola casa in legno del custode che ci e’ venuto incontro per farci pagare il biglietto di ingresso, e indirazzarci ad una tettoia di frasche sotto cui parcheggiare l’auto. Poi, sommariamente, ci ha suggerito di visitare per prima la necropoli e le tombe dei re, riprendere l’auto e proseguire lungo la strada. Lasciare nuovamente l’auto in un altro parcheggio e visitare il teatro e il poco che resta dell’antica citta’.

Tutto intorno a circa 500 metri di altezza almeno 900 tombe scavate nella roccia, che da lontano ci apparivano come un gigantesco alveare.

Il sentiero che conduce alle tombe dei re e' in mezzo ad un bosco e ci fa pensare che non ci sia intorno un luogo altrettanto bello e intatto come questo. Siamo completamente rapiti dal paesaggio e dalla fragranza che si spande nell'aria: antichi ulivi, pini fragranti, fiori selvatici, una piacevole brezza profumata di timo. Il verde del bosco e' interrotto qual e la' da macchie di oleandri: rosa, bianchi, rossi. Si sentono solo le api e lo scorrere dell'acqua di un piccolo ruscello, per il resto il silenzioso volo di libellule multicolori e di farfalle dalle ali variopinte.

Come osservava un viaggiatore inglese: "Pinara remains undiscovered by most people and so retains its tranquil and mystical atmosphere".

Le tombe sono molto grandi e replicano facciate di case licie, e il sarcofago piu' grande di tutta la Licia si staglia fiero e maestoso su una radura. La Tomba Reale, costruita con dovizia di dettagli, ha in rilievo alcune scene che ritraggono l'antica citta' fortificata. 

L'emozione e' talmente forte che non ci rendiamo conto del tempo che passa. A malincuore ritorniamo all'ingresso, risaliamo in macchina e proseguiamo verso l'anfiteatro. Ci guardiamo intorno cercando il parcheggio che non riusciamo a vedere, e incuriositi dalla strada sterrata che prosegue in salita decidiamo di percorrerla. Ben presto ci rendiamo conto che, come ci era gia' capitato, e' una strada che non porta da nessuna parte. Con tremore e terrore facciamo l'inversione a U e lasciamo l'auto a lato della strada. 

Qualcosa, di quel luogo,  fin dal primo momento ci aveva colpito. Eravamo soli! Ma davvero in questo mondo esistono ancora luoghi senza traccia di esseri umani? Appena detto questo vediamo una macchina percorrere la strada che non porta da nessuna parte e sadicamente io e George diciamo: ecco altri due ingenui!

Il teatro alla base della citta' ha una vista sulle sue stesse rovine. Costruito nel 2 secolo AC poteva ospitare, nelle 27 file di posti a sedere, circa 3.200 spettatori. George ed io lo guardiamo da lontano con un senso di stupore e rispetto per un luogo cosi' importante nell'antichita'. 

All'improvviso ci ritroviamo davanti due turisti, gli stessi che come noi avevano percorso la strada sterrata e che come noi erano ritornati indietro. Una coppia di tedeschi. L'uomo con aria curiosa ci chiede se la strada conduce da qualche parte e alla nostra risposta negativa replica: sara' una strada militare, loro sono famosi per costruire strade che non portano da nessuna parte. Sono simpatici, parliamo a lungo della bellezza del luogo, gli consigliamo altri siti archeologici che lui annota su un piccolo quaderno. Loro ci raccontano il loro viaggio con il catamarano e la decisione di prendere qualche giorno di riposo in terraferma. Poi l'uomo, guardando il teatro ci dice: non perdetevi la meraviglia di sedervi nell'ultima fila proprio sotto a quell'ulivo centenario e godervi lo spettacolo.